Aspetti giuridico-tecnici sulla grande naturalizzazione brasiliana
Come tutti sanno, l’avvocatura dello stato ha presentato a dicembre 2019 una memoria nelle cause PATERNE CONTRO LA FILA basata sulla applicazione del decreto sulla grande naturalizzazione brasiliana del 1889.
Il decreto sulla grande naturalizzazione brasiliana del 1889 prevedeva che coloro che si trovavano, alla data del 15.11.1889, nel territorio brasiliano diventassero cittadini brasiliani se, nel termine di sei mesi, non avessero manifestato la volontà di mantenere la cittadinanza di origine.
Si era, pertanto, introdotto un meccanismo di presunzione tacita del consenso che non passò di certo inosservata alla dottrina e, più in generale, alla comunità internazionale tanto che la prima sostenne la mancanza di fondamento giuridico proprio in quanto, dal silenzio dell’individuo, si deduceva la presunzione della volontà di diventare cittadino brasiliano.
La comunità internazionale, invece, fece leva sui principi del diritto internazionale ritenendo che il decreto fosse contrario al principio della libertà individuale nonché agli interessi degli stranieri che già risiedevano nel paese.
Se, pertanto, il Brasile ritenne che quel decreto fosse valido e legittimo, la reazione dei paesi colpiti direttamente dallo stesso fu immediata e fu nel senso di non riconoscere la validità della naturalizzazione tacita per mancanza di fondamento della presunzione tacita di rinuncia su cui si basava tanto che venne inoltrata al governo brasiliano, il 22.05.1890, una nota collettiva di protesta, redatta dal governo italiano e firmata dalla Spagna, dal Portogallo e dall’impero austro-ungarico.
Si ritenne, quindi, che a livello internazionale tale forma di cittadinanza non fosse opponibile e che, quindi, il Brasile non avesse i mezzi per poter agire in protezione diplomatica avendo il decreto soltanto efficacia all’interno del Brasile.
Si ricorda, per completezza, che stessa sorte ebbero anche i decreti di naturalizzazione del Venezuela, del Cile o del Perù per cui si può agevolmente affermare che i modi di attribuzione della cittadinanza tramite naturalizzazioni di massa sono sempre state osteggiate dagli altri Stati e ritenuti incompatibili con il diritto internazionale.
A titolo esemplificativo, ad esempio, il Tribunale civile della Senna, in una sentenza del 1915, qualificava le disposizioni del decreto brasiliano del 14 dicembre 1889, come “exorbitantes du droit commun international” ribadendo che tale fatto “expliquerait les protestations élevées par la plupart des Etats européens en raison tant des dispositions de leurs lois particulières que des principes de droit International”.
Anche la giurisprudenza italiana si era orientata in questo senso ed, in particolare, si fa riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione di Napoli del 1907 in cui la Corte afferma primariamente che “l’autorità giudiziaria italiana ha la potestà di giudicare se il decreto del 15.12.1889… e la legge del 24.02.1891…in tema di cittadinanza abbia potuto derogare al codice civile”, su cui si era espressa la Corte di appello di Potenza che aveva affermato che la legge straniera non può avere in Italia alcuna autorità poiché, in nessun caso, può derogare alle leggi del Regno in particolare quelle relative alle persone, ai beni e agli atti di cui all’art. 12 delle disposizioni generali del Codice e che la Corte di Cassazione di Napoli confermò poiché la nostra legge presuppone che il cittadino abbia con atto positivo espresso la volontà di conseguire la cittadinanza straniera e che l’abbia conseguita.
Poiché conseguire presuppone un domandare, la Corte afferma altresì che “l’accettazione della nazionalità brasiliana, a senso delle disposizioni anzidette, espressa o tacita che fosse era sempre necessaria, né potevasi dedurre dal fatto negativo di non essersi dichiarata la volontà contraria nel termine assegnato nel decreto e nella Costituzione”.
Il requisito della volontarietà è del resto insito nella definizione di naturalizzazione in senso stretto per cui sarebbe sempre richiesta una manifestazione di volontà da parte dell’interessato cioè la volontarietà, presente anche nei casi di acquisto della nazionalità ex necessitate iure quale elemento imprescindibile per la naturalizzazione (tra tutti il caso di acquisto per matrimonio per cui le successive pronunce di incostituzionalità non soltanto miravano ad eliminare ma altresì volevano evitare ipotesi di mutamento automatico della nazionalità in assenza di un consenso espresso o tacito da parte della moglie).
Ben si comprende, quindi, come il decreto si sia inserito in un contesto di conflitti internazionali, di pronunce giurisprudenziali e riflessioni dottrinali che determinò un dibattito volto alla riforma delle norme di cui al codice civile del 1865, anche sulla base delle richieste mosse dei rappresentanti degli italiani residente all’estero che, nel I Congresso del 1908, all’ordine del giorno precisarono che “Il congresso degli italiani all’estero riconosce la necessità di una legge organica che regoli al più presto l’istituto della cittadinanza, non bastando i ritocchi apportati sin qui da leggi speciali al relativo titolo oramai invecchiato del libro I del codice civile del regno e formula fin d’ora il voto che vengano adottate facilitazioni al riacquisto della cittadina” .
Ciò portò, infatti, nel 1910 alla presentazione di un disegno di legge da parte di Scialoja, in qualità di ministro della giustizia dell’epoca, il cui esame fu sicuramente caratterizzato da diverse difficoltà e scontri politici che ma che confluirono però nella legge 555 del 13.06.1912, certamente considerare un compromesso politico che, però, è resistito al fascismo e alla nascita della democrazia costituzionale e fino al 1992 quando il legislatore si abbandona definitivamente alla idea della doppia cittadinanza.
Per tali ragioni, si ritiene pertanto che l’eccezione sollevata dalla Avvocatura sia priva di rilevanza e ciò non solo perché tale decreto non è mai stato ritenuto efficace nel nostro ordinamento ma anche perché, se è vero che l’articolo 69 comma 4 della Costituzione brasiliana del 1891 aveva confermato quanto previsto dal decreto della grande naturalizzazione, tale norma va coordinata con l’art. 34 n. 24 della stessa Costituzione brasiliana che demandava al Congresso di stabilire leggi uniformi sulla naturalizzazione per cui sarebbe comunque stata necessaria una norma ad hoc.
Tanto è vero che, nel 1908, il decreto brasiliano 6.948 del 14.05.1908 previde la concessione della naturalizzazione solo a seguito di formale richiesta.
Del resto, la avvocatura dello stato nelle sue memorie non fornisce la prova della naturalizzazione limitandosi ad affermare che non si è a conoscenza del fatto che l’avo fosse in Brasile nel 1889 ma che sicuramente il figlio ha perso la cittadinanza italiana in forza dell’art. 11 del codice civile.
Si ricorda, in primis, che ai sensi dell’art. 2697 del codice civile “chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si e’ modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda” per cui spetta a parte resistente provare che l’italiano si fosse naturalizzato, soprattutto in considerazione del fatto che il ricorrente produce in giudizio il Certificato Negativo di Naturalizzazione, rilasciato dal Ministero della Giustizia e Sicurezza Pubblica, assolvendo al suo onere probatorio.
E del resto, a differenza di quanto affermato dal Ministero dell’Interno, non è richiesta ai fini del riconoscimento della cittadinanza ius sanguinis la prova della mancata naturalizzazione di massa dal momento che la circolare K.28, che stabilisce i requisiti per la domanda di cittadinanza, richiede per provare la mancanza di interruzioni nella trasmissione, unicamente il certificato negativo di naturalizzazione nonché la mancata rinuncia (che il Consolato invierà ai Comuni qualora la pratica sia fatta nel luogo in cui il richiedente ha la residenza).
Quanto al figlio, da un lato non essendoci la prova della naturalizzazione del padre, la cittadinanza italiana si è trasmessa iure sanguinis ma non si comprende, in ogni caso, perché l’art. 11 del codice civile del 1865 dovrebbe operare nel senso di determinare la perdita della cittadinanza italiana.
Ed, invero, l’art. 11 prevedeva la perdita automatica della cittadinanza a seguito di rinuncia ovvero per “colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero” ma il minore nato in Brasile nasceva cittadino brasiliano per ius soli,per il solo fatto di essere nato in Brasile per cui tecnicamente non ci sarebbe un ottenimento dal momento che una richiesta di fatto non c’era.
Posto che il padre non risulta naturalizzato, secondo il principio di unità familiare, il figlio avrebbe mantenuto la cittadinanza italiana.
Inoltre, si sottolinea come anche, già prima della entrata in vigore della legge del 1912/555, la giurisprudenza si era espressa nel senso che non perdeva la cittadinanza italiana il figlio naturale di cittadino italiano residente all’estero per il solo fatto che lo stato attribuisca la propria nazionalità affermando espressamente che “dalla circostanza che lo stato straniero concede la propria nazionalità a chi sia nato nel suo territorio benchè da genitore straniero, non deriva la conseguenza che il figlio minore di un cittadino italiano debba perdere la cittadinanza italiana ed acquistare quella dello stato straniero per effetto della nascita se egli non manifestò alcuna intenzione di rinunciare alla nazionalità originaria”( fra tutti App. Casale 15.04.1902).
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